In Italia oggi si pensa di essersi lasciati alle spalle l’inferno dei manicomi, quei luoghi di tortura, esclusione e prigionia dove per anni sono stati segregati senza tetto, poveri, trasgressori di norme sociali e comportamentali, oppositori politici.
La legge 180/1978 ha definitivamente chiuso questi luoghi, così come recentemente la legge n. 81/2014 ha fatto con gli OPG (Ospedali psichiatrici giudiziari), ma a distanza di 40 anni occorre riflettere se sia sufficiente chiudere un luogo fisico, senza intaccarne i presupposti, ossia il concetto stesso di “malattia mentale”, e senza superare la pratica dell’internamento manicomiale. La legge 180 infatti, nonostante stabilisca che i ricoveri psichiatrici debbano essere volontari, prevede che si possa comunque ricorrere alla coercizione tramite il TSO (trattamento sanitario obbligatorio), che dovrebbe sulla carta essere un’eccezione ma che in realtà è estremamente diffuso e attuato il più delle volte illegalmente.
Ancora oggi la psichiatria ha quindi il potere di giudicare arbitrariamente le persone, etichettandole come “malate” per un loro pensiero e comportamento, drogarle senza la loro volontà, e imprigionarle all’interno di strutture più piccole, più confortevoli e pulite, capillarmente distribuite sul territorio e con esso più integrate (repartini/SPDC, CSM, case famiglia, cliniche e comunità terapeutiche, REMS).
Il manicomio invece di essere chiuso si è diffuso, si è integrato con le altre strutture repressive territoriali, anche sulla spinta della moderna psicofarmacologia e degli interessi del privato sociale. Nei CPR gli psicofarmaci sono nascosti nel cibo, al fine di controllare chimicamente i reclusi per ragioni di sicurezza; nelle carceri vengono somministrati ansiolitici, sedativi e tranquillanti in maniera massiccia, e vengono aperti reparti di osservazione psichiatrica; nelle scuole vengono effettuati screening e somministrati test per individuare preventivamente le “malattie” e indirizzare le famiglie verso una tempestiva “cura”.
Ma può esserci una possibilità di “cura”,di riabilitazione e reinserimento sociale senza il consenso, la volontà e la libertà degli individui?
Chi oggi ha la sfortuna di incappare nelle reti della psichiatria, nella sua presa in carico vitalizia da parte del SSN, racconta di rapimenti in repartino, reclusioni prolungate in strutture residenziali, obbligo di cure (su ricatto di un eventuale TSO), visite e somministrazioni forzate di psicofarmaci.
Così come avrebbe potuto fare Andrea Soldi, colpevole di non aver voluto sottoporsi alla mensile iniezione a lento rilascio (depot) di Haldol – un potente e dannoso neurolettico, che provoca dipendenza e gravi effetti collaterali -, e di aver quindi preso una libera scelta su come volersi curare per stare meglio, e per questo brutalmente strangolato dalla squadra mobile dei vigili urbani il 5 agosto 2015 su una panchina di Piazzale Umbria, a cui si era aggrappato per sfuggire all’ennesima cattura e violenza farmacologica.
Parecchi testimoni hanno visto prendere e stringere per il collo l’uomo fino a farlo diventare cianotico, ammanettarlo e buttarlo privo di vita a testa in giù su una barella, la stessa con la quale è arrivato al pronto soccorso già morto.
Il 27 settembre si è aperto il processo che vede imputati per omicidio colposo i 3 vigili (Stefano Delmonaco, Manuel Vair, Enri Botturi) autori della manovra contenitiva che ha di fatto soffocato l’uomo, e lo psichiatra (dott. Pier Carlo Della Porta) che ha disposto il TSO senza che ci fossero le necessarie condizioni previste dalla legge.
In occasione della prossima udienza del processo (venerdì 23 marzo), saremo presenti dalle 9 sotto il tribunale per contestare la pratica del TSO e gli abusi della psichiatria. Per ribadire che quella di Andrea non è una storia di malasanità, un errore nell’attuazione di un provvedimento terapeutico, ma è la più tragica conseguenza di pratiche quotidianamente perpetrate dalla psichiatria. Non è neanche un caso isolato di morte per TSO, perché sono in tanti a perdere la vita durante la cattura e soprattutto a causa dell’indiscriminata e ponderosa somministrazione di psicofarmaci. La differenza è che nel caso di Andrea ci sono tanti testimoni, occhi e orecchie di persone che hanno assistito a ciò che mai avrebbero potuto immaginare, visto che la repressione psichiatrica avviene nella solitudine degli utenti, nel silenzio delle loro famiglie, all’interno di reparti chiusi e di luoghi isolati.
Inoltre abbiamo organizzato una serie di iniziative (incontri, dibattiti, presentazioni di libri e cineforum) per approfondire l’argomento, confrontarci e condividere pratiche di ascolto e aiuto diretto.
Come possono i comportamenti delle persone, siano essi “anormali” e non comprensibili, così come il dolore e la sofferenza, essere giudicati “malattia”? Cosa differisce la “follia” dalla “normalità”, se “normale” è uccidere delle persone o drogare dei bambini?
E soprattutto, possiamo liberarci dalla psichiatria? Si possono creare spazi relazionali di condivisione di pensieri ed esperienze tutte – di crisi, conflitti e difficoltà -, affinché le persone possano vivere, relazionarsi e confrontarsi liberamente, e si possa diffondere una cultura di libertà, solidarietà e valorizzazione delle differenze?
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